America inquieta
29 aprile 2015
Nuovi scontri a Baltimora dopo l'uccisione di un altro afroamericano. L'unica parola di riferimento resta quella delle chiese, ma si avverte la stanchezza e la mancanza di orizzonti chiari
Sono passati solo pochi mesi dalle rivolte urbane in seguito all’uccisione da parte di un agente di polizia di Michael Brown, a Ferguson, in Missouri e l'America si trova al punto di partenza. Si erano appena conclusi i funerali di Freddie Gray, l'ennesimo afroamericano morto dopo un arresto da parte delle forze di polizia statunitensi, quando una grande folla si è riversata nelle strade di Baltimora, in Maryland, incendiando negozi e auto dei militari, con i quali ci sono stati durissimi scontri. Il sindaco ha disposto il coprifuoco dalle ore 22 alle 5 per una settimana nel tentativo di arginare le violenze, causate da una parte della popolazione che sente come quella statunitense sia una società profondamente discriminante, in cui incappano in simili episodi sempre gli stessi: gli appartenenti alla comunità di colore. Le autorità hanno richiesto oltre 5 mila militari di supporto.
Dopo l’omicidio di Martin Luther King fu proprio Baltimora la città trasformata in un campo di battaglia per otto giorni. Commentiamo i fatti delle ultime ore con Paolo Naso, docente di Scienza Politica alla Sapienza-Università di Roma.
Un’altra città messa sotto assedio per le violenze della polizia. Ferguson quindi non ha insegnato niente?
«E’ una vicenda triste e in qualche modo prevedibile perché ricorrente. La storia degli Stati Uniti è punteggiata di casi drammatici, e l’uccisione di una persona di colore diventa occasione di odio e rabbia; i riots non sono una novità, dopo la morte di Martin Luther King ci furono scontri che durarono una settimana proprio a Baltimora e altri ne abbiamo avuti negli anni ‘70 e ‘80. Questo movimento però non ha leadership e le rivolte non sono uno strumento di lotta ma appaiono fini a se stesse, cosa che dipende in gran misura dalla mancanza di un progetto politico. L’esito di questi scontri è prevedibile: costringerà da una parte la comunità afroamericana in un angolo di isolamento e di autocritica per le sue contraddizioni e dall’altra avvalorerà l’idea di una comunità disposta allo scontro anche violento. Si realizza una polarizzazione dello scontro che costituisce il peccato originale della società americana, un’eredità che affonda le radici nel razzismo e nello schiavismo. Un peccato da cui gli Usa non riescono a emendarsi».
Le chiese come sono coinvolte in queste proteste?
«L’unica parola di riferimento resta quella dei pastori afroamericani, che non sono soltanto personalità religiose ma anche leader e si sono espressi con grande forza contro questa violenza distruttiva, che non rende giustizia alle vittime picchiate e uccise da poliziotti bianchi. Ciò non toglie che la comunità nera appare stanca nella sua leadership, lo si vede nel volto stesso di Jesse Jackson; c’è un movimento che va da Martin Luther King a Barack Obama ma che ora fatica a esprimere un’altra generazione. E’ preoccupante perché sembra mancare un’autorevolezza e un’autorità morale che possa dare prospettiva alla lotta».
Si parla anche di una manifestazione pacifica di diecimila persone che chiedono giustizia per Freddie Gray, però.
«È sempre esistita un’altra America che riusciva a vedere oltre la polarizzazione fra esercito e dimostranti e che aveva la statura morale e l’intelligenza per immaginare un paese riconciliato, una comunità coesa; però è un’America di minoranza. La notizia è comunque un dato positivo e che deve essere valorizzata perché è da quella marcia che vede bianchi e neri manifestare contro la violenza che si può immaginare un percorso di riconciliazione. Il dato di sconforto è che questi anni sembrano essere passati invano. Lo stato delle relazioni razziali, come viene definito negli Usa, è di inquietudine; per la prima volta c’è stato un presidente afroamericano ma non sembra aver intaccato un sistema di potere bianco: quando guardi quali risorse vengono allocate nelle scuole latinos o nere vedi che, al di là delle formulazioni esteriori che sono inclusive e rispettose, i rapporti di potere reali, che decidono la qualità della vita, sono ancora fortemente sbilanciati».