Libertà d’espressione senza responsabilità
17 aprile 2015
La tortura nella scuola Diaz a Genova e i commenti sul web
Questa settimana l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo per i fatti della scuola Diaz (Genova, 2001), per due motivi: c’è stata tortura e il nostro paese non ha ancora adottato una legislazione contro la tortura, pur avendo firmato nel 1988 la relativa Convenzione internazionale, adottata dall’Onu nel 1984.
Dalla condanna sono avvenute due cose, una positiva, anche se tardiva, la seconda deplorevole. Da una parte la Camera ha inserito la tortura tra le fattispecie di reato — manca ancora l’approvazione del Senato per promulgare la legge — e dall’altra un poliziotto che si trovava quella sera nella scuola Diaz di Genova ha dichiarato su Facebook: «Io sono uno degli 80 del VII NUCLEO. Io ero quella notte alla Diaz. Io ci rientrerei mille e mille volte». In seguito alle polemiche che, prevedibilmente, questo post ha generato, l’autore ha spiegato la sua posizione con un commento più sostanzioso di una decina di righe, che però vi risparmiamo per carità di patria. Tanto su internet lo trovate, ad esempio qui.
Tali dichiarazioni sono inaccettabili su diversi piani e per vari motivi. In questa rubrica non possiamo elencarli tutti, ma ci limitiamo alla dimensione social della dichiarazione. Andate a vedere una partita al bar e ascolterete incitazioni alla violenza di ogni genere. Ma il bar è come il Fight Club: quel che si dice al bar, resta nel bar. Quando si va al Gran Bar Internet, invece, ogni castroneria che si dice ha la più ampia diffusione. Anzi, peggiore è quel che si dice e più circola.
Sempre in questa rubrica abbiamo però più volte difeso la libertà d’espressione che, proprio grazie ai nuovi media, è un diritto sempre più accessibile. C’è per caso un corto circuito, un’incongruenza?
Partiamo dai fatti di Parigi con cui si è aperto il 2015. Questi hanno riportato alla ribalta il tema della libertà d’espressione, anche se, purtroppo, quasi esclusivamente in forma di hashtag e solo in pochi casi con l’apertura di un dibattito all’insegna del diritto e del buon senso. In paesi che hanno una tradizione di repressione dell’espressione di un pensiero diverso da quello ufficiale — l’Italia, ad esempio — la mattanza di Parigi è stata recepita come una sorta di “tana libera tutti”. Insomma, se Charlie Hebdo poteva essere irriverente nei confronti della religione, allora tutti possiamo impunemente dire le più grandi castronerie che ci passano per la testa.
Errore: la libertà d’espressione di Charlie Hebdo era bilanciata da chi dissentiva dalla linea del giornale e l’indignazione veniva dalla strage. Nessuno può infatti pensare che sia tollerabile reagire a una parola con la violenza. Cioè, a dire il vero, qualcuno lo pensa, ma è inaccettabile.
Ogni libertà deve essere vissuta nella responsabilità e questo vale anche e per i post su Facebook. Il poliziotto è stato libero di dire la sua, ma quanto ha danneggiato ulteriormente l’immagine della polizia con quello che ha detto? Nessuno conosceva il suo nome prima e tra non molto nessuno se lo ricorderà più. Quello che la gente — forse, nel paese della memoria corta — si ricorderà, è che qualcuno a Genova, quella notte si è divertito. E non era tra chi è stato torturato.