La Grecia e le radici cristiane dell’Europa
09 febbraio 2015
Il nuovo governo greco non chiede di non ripagare il debito, ma un piano di pagamento compatibile con la ripresa. Le contraddizioni dei fautori del rigore
Il compito di Tsipras è difficile, si sapeva. Passati i giorni in cui vari politici italiani «progressisti» si proclamavano suoi amici (anche quelli che hanno votato senza fiatare le regole di austerità europee), ora sembrano prevalere posizioni di chiusura nei governi europei (incluso quello italiano). Nello scenario internazionale, solo Obama mostra un atteggiamento di disponibilità... Il punto di vista dei fautori del rigore è noto: senza severità nel rispettare le ricette di austerità, si creerebbe un incentivo per qualsiasi governo dell’Unione Europea a gonfiare il debito pubblico senza controllo. D’altra parte, Tsipras e il suo ministro delle finanze Varoufakis non stanno chiedendo di non ripagare il debito, ma un piano di pagamento del debito compatibile con la ripresa di un’economia (e di una nazione) già prostrata da enormi sacrifici: allungare la scadenza del debito e accelerarne la restituzione in caso di maggiore crescita dell’economia greca.
Dopotutto anche l’America di Roosevelt, negli anni ‘30, concesse al governo britannico suo debitore (fortemente colpito dalla recessione) di dilazionare la restituzione del debito, addirittura fino al 1991... I greci chiederebbero dilazioni immensamente minori. Stupisce che la Merkel (originaria dell’ex Ddr) e il presidente della Bundesbank Weidmann si siano dimenticati di come i costi dell’unificazione tedesca del 1990 siano stati scaricati sull’Unione europea, attraverso politiche economiche ben poco in linea con i dettami di politica economica del Sistema monetario europeo di allora, che, come è noto, collassò nel 1992 proprio a causa delle scelte economiche tedesche post-unificazione. Un esempio tra tanti: fu imposto forzosamente il cambio 1 a 1 tra marco dell’Est e marco dell’Ovest, una misura assolutamente demagogica e priva di fondamento economico.
Ora, è vero che gli esempi storici del default argentino e di iperinflazione di altri Paesi latinoamericani dimostrano che il debito pubblico va tenuto sotto controllo, ma quali nuovi tagli e sacrifici si può chiedere ad una nazione come la Grecia, dove la disoccupazione è al 27,5% (quella giovanile al 57%), dove i più fortunati, quelli che hanno mantenuto il posto di lavoro, si sono visti decurtare il salario dal 30 al 40%, dove sia Nea Dimokratia che il Pasok (quelli ben visti della troika) hanno falsificato i bilanci pubblici per coprire, in passato, una pessima gestione del denaro pubblico? Gli Usa sono pienamente usciti dalla crisi, ma il loro rapporto deficit/Pil ha toccato persino il 16%: con le regole della troika, di Weidmann e della Merkel, sarebbero ancora in recessione. A governare gli Usa non era certo la sinistra radicale...
Come ha detto Jean-Paul Fitoussi lo scorso novembre all’Università di Genova, «il virus dell’ideologia ha contagiato l’Europa» e una moneta senza un governo democratico della politica fiscale non può funzionare in tempi di recessione, perché la recessione richiede interventi a sostegno della domanda e coordinamento delle politiche fiscali. Ma allora, perché i politici europei e italiani (inclusi quelli «progressisti») hanno dato all’Europa regole così ideologicamente ultra-liberiste? Nel 2016 i miliardari appartenenti all’1% più ricco della popolazione mondiale avranno più ricchezza del rimanente 99% (rapporto Oxfam). Questo processo (frutto dell’assenza di politiche redistributive a difesa delle fasce più deboli) porterà ad una stagnazione economica o, nella migliore delle ipotesi, alla «jobless recovery» (ripresa senza lavoro), perché sono proprio le fasce più deboli a trasformare in domanda una percentuale maggiore del proprio reddito e delle proprie risorse (tecnicamente, hanno una maggiore «propensione al consumo»).
Con la globalizzazione abbiamo perfetta mobilità del capitale (si spostano miliardi di euro in pochi secondi da una borsa all’altra) e imperfetta mobilità del lavoro (ci vuole molto più tempo per emigrare e trovare lavoro all’estero). È ovvio che se la crisi colpisce un paese bastano pochi secondi ai grandi investitori finanziari per spostare le loro ricchezze nella borsa di un altro paese, mentre i lavoratori di una nazione subiscono «in toto» le conseguenze della crisi. Servono politiche di welfare a tutela delle fasce deboli e coordinamento tra le politiche fiscali in Europa. Ma questo è lontano anni luce dall’atteggiamento attuale dei governanti europei e italiani. Sono queste le «radici cristiane» dell’Europa tanto reclamate da politici di ispirazione ultra-liberista?