Il complesso discorso sul perdono
25 novembre 2014
Un giorno una parola – commento a Luca 18,13
Guarda, Signore, come sono angosciata! Le mie viscere si commuovono, il cuore mi si sconvolge in seno, perché la mia ribellione è stata grave.
(Lamentazioni 1, 20)
Il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore».
(Luca 18, 13)
Un problema che nasce quando rileggiamo un testo biblico ben conosciuto è che ormai lo conosciamo bene, ci ha già detto tutto, quindi non può dirci niente di nuovo. Inoltre, in base alle precedenti letture, ci siamo già immedesimati nel personaggio “positivo”, di cui non sempre cogliamo gli aspetti più complessi e le conseguenze diverse.
Nella parabola del fariseo e del pubblicano la nostra scelta, teologicamente corretta, è quella a cui invita lo stesso Gesù al termine della parabola. Più che al fariseo, siamo vicini al disonesto esattore delle tasse: lui con il suo peccato, noi con il nostro. Questo non lo possiamo dimenticare dinanzi a Dio. La conseguenza che ne traiamo è semplice: se confessiamo il nostro peccato, otteniamo il perdono da Dio e tutto finisce lì, possiamo vivere felici e contenti. Troppo facile, e non vero! L’intero discorso sul perdono è più complesso.
C’è un passo ulteriore, presente in un’altra parabola, con il quale fare i conti. Se noi perdonati, non riusciamo a nostra volta a perdonare a che ci ha fatto un torto, il perdono, che ci era stato accordato, ci viene ritirato (questo discorso più completo si trova in un’altra parabola di Gesù in Matteo 18, 23-35). Non che la prima parabola sia un errore biblico, o che Gesù si sia sbagliato. Lì si parlava soltanto del rapporto fra l’uomo e Dio e di come si riceve il perdono da parte di Dio, ma non di come viverlo e conservarlo. In verità l’intero percorso biblico sul perdono ci vede come peccatori (che confessano il peccato), perdonati (da Dio), che perdonano (chi ci ha fatto un qualche torto).