Un equilibrio a rischio
19 novembre 2014
L'attentato di Gerusalemme rischia di aggravare la divisione fra Israele e Palestina e portare a un'escalation del conflitto
In una sinagoga del sobborgo di Har Nof, a Gerusalemme Ovest , si è verificato un terribile attacco da parte di due persone armate, che hanno e ucciso dei fedeli ebrei riuniti per la preghiera. Cinque persone sono morte, tra cui un poliziotto. Gli assassini, che erano armati di pistole e armi da taglio, sono stati uccisi dalla polizia poco dopo. Nelle prime ore i due sono stati definiti "lupi solitari", ma successivamente l'attacco è stato rivendicato dalle Brigate Abu Ali Mustafa, braccio armato del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Mentre Israele ha promesso ripercussioni immediate, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen ha condannato l'azione, così come tutti gli esponenti politici internazionali. Alcuni commenti, però, parlano di un progressivo isolamento di Israele nella sfera internazionale, forse anche per la discussione politica interna che si sta svolgendo sulla proposta di legge per definire Israele come «stato nazione degli ebrei», anche se quasi il 20% della sua popolazione è araba. Abbiamo commentato queste notizie poche ore dopo l'atto terroristico con Daniele Garrone, professore di Antico Testamento alla Facoltà Valdese di Teologia.
Qual è stato il suo primo commento quando ha saputo della notizia?
«Una cosa efferata al di fuori di qualunque logica e ragionamento politico e temo che sia un bruttissimo segnale. La trasformazione di conflitti, che possono avere un contesto politico, in una sorta di guerra di religione è un segnale molto preoccupante».
Alcuni commenti dicono che la pace si allontana dal medio-oriente, ma che forse Israele non l’ha mai voluta. Cosa ne pensa?
«Un’affermazione pesante che non condivido. Israele è un paese con molte opinioni al suo interno e naturalmente ci sono delle parti che non pensano di ritirarsi dai territori e sognano un Israele più grande, e altre più disponibili ad un’ottica di compromesso, che è l’unica possibile per raggiungere una pace che salvaguardi entrambe le parti. È chiaro che interventi di questo tipo non servono né a una parte né all’altra, perché persino il moderato, che vuole il compromesso, è portato a pensare che non sia possibile. Anche le rivendicazioni legittime della maggior parte dei palestinesi perdono di credibilità se affiancate ad azioni di questo tipo. Più c’è questo plauso ai martiri da parte di Hamas, più si nuoce alla causa palestinese. Il fatto che siano unità solitarie, come ha detto la polizia di Israele, e non i primi avamposti di un movimento più largo, non cambia la situazione. Se si elogiano si compromette la causa».
Le difficoltà interne al partito di Netanyahu peggioreranno?
«Certamente episodi come questo non favoriscono le dialettiche interne, perché portano a una radicalizzazione delle posizioni e un aumento delle tensioni».
Crede che ci sia un progressivo isolamento di Israele in un contesto internazionale?
«Penso che l’isolamento ci sia, ma è storico. Secondo il mio punto di vista è nota l’assenza di un’Europa indivisa di fronte al conflitto arabo-israeliano. La sensazione di Israele di avere solo gli Usa alle spalle e poi di avere problemi con gli americani, non può che contribuire alla convinzione di essere isolati e di doversi sempre difendere da soli. Credo che se negli ultimi decenni ci fosse stata un’Europa con una politica estera unitaria, che insieme al sostegno di uno stato palestinese avesse messo un sincero e indiscusso sostegno all’esistenza di Israele, ora non saremmo in questa situazione. Così facendo l’Europa ha perso anche parte della sua autorevolezza, perché non ha mai potuto e voluto far sentire una sua presenza che non fosse percepita da Israele come un venir meno della solidarietà e che avesse l’autorevolezza di interloquire con i palestinesi e con Israele stessa».
Israele ha promesso una risposta decisa contro questi attacchi. Dobbiamo aspettarci scenari militari già visti con un’escalation delle vittime?
«Francamente non lo so, in quell’area la sensazione è che quello che ci aspetta non sia solo il tragico déjà vu, ma un “non ancora visto” e che le cose possano precipitare. E ovviamente ci auguriamo di no, sia per Israele che per i palestinesi».