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Elezioni negli Usa: i protestanti si dividono

A sostegno dei Repubblicani la destra religiosa: «un ritorno, ma con un pragmatismo che non conoscevamo»

Gli elettori statunitensi hanno votato per rinnovare 36 seggi del senato su cento. I repubblicani hanno trionfato, arrivando in questo modo a controllare 52 seggi, la maggioranza. Alla Camera dei rappresentanti, i repubblicani hanno conquistato 10 nuovi seggi e, nei 36 stati dove si è votato per eleggere un governatore, la maggioranza è ancora per il Grand Old Party. Molte notizie e analisi parlano di una sconfitta di Obama e della sua politica. Abbiamo commentato i titoli e i primi risultati con Paolo Naso, politologo e docente all’Università Sapienza di Roma.

Come leggiamo le notizie e i dati di oggi?

«Si chiude un’epoca: l’epoca della “speranza Obama” è finita. Ci sono state luci e ombre, ma è chiaro che l’America sta già pensando al dopo, alle prossime presidenziali. Sull’operato del presidente pesano con ogni evidenza alcuni dati, sicuramente amplificati dai suoi oppositori, che hanno deluso buona parte del suo elettorato, relativi a una non chiara esposizione internazionale, a una mala gestione della crisi dell’ebola, e alle scelte sui fondamentali dell’economia. Con il realismo e il cinismo che lo contraddistingue, l’elettorato statunitense, che aveva riposto molta fiducia in questo presidente, oggi guarda oltre e pensa già a cosa fare dopo».

Il consenso di Obama è calato, in modo più netto rispetto agli ultimi presidenti. La delusione dell’elettorato è stata più forte o è colpa del periodo storico?

«C’è una convergenza dei due elementi, uno psicologico e uno politico: la delusione, che ha fatto perdere a Obama una parte del suo elettorato più fidelizzato, negli Stati del sud soprattutto. Non dimentichiamo che il sistema politico americano richiede una grande motivazione per votare, gran parte dell’elettorato di Obama era stato riconquistato alla partecipazione politica dopo l’indifferenza o l’assenteismo. In particolare i giovani e la comunità afroamericana. Queste “fresche schede” elettorali hanno espresso un parere negativo. Il secondo elemento è che “grande dote del leader politico è anche la fortuna”, come spiegava Macchiavelli: Obama è stato un presidente che ha voluto concepire una politica internazionale meno aggressiva, che poi si è trovato un nuovo soggetto militare e politico come l’Isis, la crisi dell’ebola, si è trovato a dover gestire uno scandalo finanziario del quale forse è complice incompetente, ma che non si può dire essere un suo problema: si è trovato una serie di polemiche e emergenze che lo hanno fatto cedere su alcuni aspetti qualificanti del suo programma».

Ha tralasciato la “forza della speranza” che aveva caratterizzato la sua campagna elettorale?

«La forza della speranza, insieme allo spirito della possibilità “yes we can” sono suggestioni molto evidenti, ma tutto questo deve andare all’incasso: aver evocato così alte speranze significava avere un forte debito con i propri sostenitori. Evidentemente questo debito non è stato saldato nella misura sperata, la riforma sanitaria per qualcuno è troppo poco. Sul tema della legalizzazione dei 14 milioni di immigrati irregolari, siamo ancora all’anno zero, per esempio. Ci sono dei temi sui quali il presidente ha scontentato il suo elettorato più radicale».

Come si sono posizionati i protestanti in questo voto?

«Abbiamo già delle prime analisi che ci dicono come il mondo protestante americano si sia polarizzato in queste elezioni: da una parte le chiese storiche (presbiteriane, metodiste) che hanno votato in prevalenza per il partito democratico; le chiese di matrice evangelical, come la Chiesa battista del sud, le chiese carismatiche, pentecostali, hanno votato per l’agenda morale che si è consolidata nel partito Repubblicano. La grande novità, dopo sei anni di sordina, è che ritorna con baldanza la destra religiosa: un fenomeno tipicamente americano, una via di mezzo tra un partito e una confessione religiosa, o meglio una coalizione di religiosi, che ha provato a convertire il partito repubblicano in senso fondamentalista negli anni di Bush: un progetto che ha funzionato ma poi è fallito. Il partito repubblicano, infatti, è costituito da molte forze diverse, è un partito più complicato di uno a matrice confessionale. Emerge dunque una nuova destra religiosa più pragmatica, che accetta la complessità repubblicana ed è consapevole che stare nel partito è il modo migliore di imporre la propria agenda morale. Uno dei dati più interessanti è proprio questo ritorno, con un pragmatismo che non conoscevamo».

La fede riformata di Obama prometteva un maggiore dialogo e un’attenzione particolare ai temi etici: c’è stata delusione anche su questo?

«C’è stata una grande capacità di Obama di fare rete, anche con espressioni religiose diverse dalle sue. Ha dialogato con gli evangelici moderati, ha avuto dei rapporti con pastori di megachurches non confessionali come quelle della California; ha inserito nel suo staff, come consigliere spirituale, un pastore evangelical che viene dal pacifismo delle chiese mennonite, ha confermato una legge di Bush che finanzia le realtà religiose che svolgono attività sociale (in un paese come gli Stati Uniti, dove Stato e chiese sono separati drasticamente dal primo emendamento). Si è mosso davvero in un’ottica del dialogo con il mondo delle confessioni religiose; il problema è che questo mondo è molto polarizzato».

Quali sono ora le prospettive di governo?

«Lo schema politico diventerà quello che noi chiamiamo “grande coalizione”. Qualcuno si rallegrerà, perché vorrà dire un allentamento delle tensioni, delle polarizzazioni, una maggiore unità nazionale per affrontare le criticità, ma dall’altra parte qualcuno potrebbe dire che è la fine della politica. L’immagine di un cambiamento possibile, che incide nella vite delle persone più deboli e povere, si allenta del tutto. Bisognerà cercare dei temi di grande consenso, una politica non più moderata, meno profilata dal punto di vista sociale. I due anni che abbiamo di fronte non dobbiamo pensarli sulle azioni di Obama, che potrà fare poco, ma capire come si posizioneranno i due partiti in vista delle prossime elezioni presidenziali, e qui il dibattito sarà interessante. Le primarie, di fatto, cominciano domani».

Foto: "Obama Austin" di roxanne jo mitchell - Flickr. Con licenza CC BY 2.0 tramite Wikimedia Commons.